Il 3–5–2 in Serie C: perché è così diffuso?

Emanuele Mongiardo
8 min readSep 30, 2020

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Da un paio di stagioni Eleven Sports, la piattaforma che trasmette la Serie C, mette a disposizione le repliche delle partite di campionato. Un’iniziativa lodevole, che permette, a chi abbia l’interesse, di restare aggiornato sulla terza serie italiana, sui suoi migliori giocatori e anche sui suoi sviluppi tattici. In Serie C gli allenatori interessanti non mancano. Non ho una buona conoscenza dei gironi A e B, quelli del nord Italia per intenderci. Tuttavia, solo nel girone C, quello del Catanzaro, negli ultimi anni ho avuto l’occasione di osservare proposte evolute e coraggiose. Senza tornare al 2016 e al gioco di posizione del Foggia di De Zerbi, tra i sistemi più peculiari potrei citare il 3–4–3 del Catanzaro di Auteri, con le sue elaborate combinazioni sulle catene laterali; l’altro 3–4–3, quello gasperiniano del Rende di Modesto, con le marcature a tutto campo e i difensori che salivano fino alla trequarti offensiva; il 4–3–1–2 tutto tecnica del Lecce di Liverani, il cui terzino destro, Lepore, indossava il numero 10; il 3–5–2 intenso, aggressivo e verticale della Virtus Francavilla di Trocini, con le mezzali abili a fornire profondità e a dare continuità al possesso sulle corsie.

Purtroppo, si tratta di mosche bianche. A livello di varietà tattica, il girone C di Serie C è un torneo piatto. La maggior parte degli allenatori si adagia sul 3–5–2 e, quando studio le partite del prossimo avversario del Catanzaro, spesso mi sembra di assistere ad un film già visto.

Contano i principi, non il modulo. Almeno fuori dalla Serie C

Qualsiasi allenatore di alto livello, interrogato sul modulo migliore da adottare, risponde come l’importante non siano i freddi numeri, ma i principi di gioco.

Che sia inutile cercare l’identità di una squadra nello schieramento mi sembra un’osservazione incontestabile dappertutto, tranne che in Serie C, dove più che di identità di gioco è giusto parlare di identità di modulo. Certo, qualsiasi disposizione può adattarsi anche a principi opposti e quindi a sviluppi di gioco differenti: non serve di certo essere un match analyst per capire che il 4–3–3 del Parma di D’Aversa non c’entra nulla col 4–3–3 del Sassuolo di Di Francesco.

Per il 3–5–2 della terza serie italiana bisogna però fare un’eccezione. Non so se Giampiero Ventura, nel suo periodo da CT della nazionale, abbia tenuto qualche corso di formazione e abbia ipnotizzato e plagiato i suoi partecipanti. Fatto sta che, ad occhi chiusi, potremmo usare un’unica formula per riassumere le direttrici di gioco di quasi tutto il girone C di Serie C:

1) Modulo di partenza 3–5–2;

2) 5–3–2 e blocco medio-basso in fase di non possesso per coprire il centro, vietato pressare alto (Calabro, il nostro nuovo allenatore, trecinqueduista, nell’ultima partita ogni tanto ci ha provato, ma era fatto talmente male che la difesa non accompagnava e bastava un lancio per permettere agli avversari di conquistare la seconda palla e puntare la difesa);

3) Schemi offensivi precotti, ciò che mi manda fuori di testa di questo modulo, che gli allenatori cercano di imporre in maniera pedissequa come fossero le istruzioni di montaggio di un mobile Ikea.

Gli schemi offensivi

Intendiamoci, anche col 3–5–2 può esistere varietà d’interpretazione: Nagelsmann e Setién ne sono un esempio, ma anche Iachini e Nicola, che provano a poggiarsi sulle transizioni più che su giocate mnemoniche.

In Serie C però non funziona così e possiamo riassumere in maniera semplice le soluzioni offensive standardizzate del 3–5–2:

1) Circolazione palla tra i 3 difensori e il regista, mentre gli esterni si alzano a centrocampo;

2) Se possibile (quasi mai visto che gli avversari difendono bassi), i difensori verticalizzano sulle punte, vicine tra loro, che cercano la classica giocata col velo e il movimento a elastico, quella di Pellé ed Eder per intenderci;

3) Se la palla arriva sull’esterno, la mezzala fa il taglio interno-esterno, nella speranza di portare via l’uomo e aprire il passaggio verso il centro sugli attaccanti, che a quel punto proveranno nuovamente il velo + movimento o, in alternativa, la sponda sul centrocampista più vicino.

Il problema, per giocate di questo tipo, così codificate, verticali e rapide (idealmente da eseguire di prima), è scontrarsi con la realtà. La realtà di un campionato dove l’avversario fa densità al centro e chi è in possesso non azzarda nulla (un dribbling, una conduzione) per smuovere la struttura difensiva avversaria.

Domenica il Catanzaro ha perso contro il Potenza di Mario Somma, schierato con un 4–2–3–1 che in fase di non possesso diventava 4–4–2. Il Catanzaro si disponeva 3–5–2. I lucani difendevano nella propria metà campo e lasciavano avanzare i braccetti avversari anche un paio di metri oltre la linea di metà campo.

I calabresi non sono mai riusciti a creare pericoli con le classiche giocate del 3–5–2. I braccetti partivano quasi in linea col centrale. Una volta ricevuta palla, non avevano il coraggio di condurre per bucare la densità degli avversari, permettere alle mezzali, agli esterni e alle punte di occupare una posizione più avanzata ed eventualmente innescarli con un passaggio taglialinee. Come il Catanzaro, negli ultimi due anni mi è capitato di vedere un’infinità di squadre col 3–5–2 in preda agli stessi problemi.

Durante il lockdown, De Zerbi ha partecipato a una videoconferenza con Renzo Ulivieri, dove ha spiegato i principi della sua costruzione bassa. Ha insistito molto sul giocare la palla in direzione opposta al pressing degli avversari, in modo da non assecondare i loro scivolamenti e quindi comandare lo sviluppo del gioco. Nel caso del Catanzaro e di tutte le squadre di C col 3–5–2 (salvo Virtus Francavilla e Monopoli), è chi pressa (anche ad altezza medio-bassa) a comandare lo sviluppo del gioco, non chi ha la palla. Se chi difende, ad esempio, indirizza lo scivolamento verso sinistra, nove volte su dieci la squadra in possesso asseconda la direzione del movimento difensivo, con semplici passaggi verso l’esterno che agevolano il pressing: non c’è mai il coraggio — forse neanche la volontà, immagino — di tentare una giocata che vada in direzione contraria allo scivolamento difensivo (magari una conduzione, di quelle che dovrebbero essere proprie dei braccetti), che costringa la squadra che aspetta a correre all’indietro e a disordinarsi.

Lo sterile possesso difensivo è il preludio delle inutili soluzioni codificate che coinvolgono esterni, mezzali e attaccanti. Il braccetto, senza coraggio di condurre, appoggia sull’esterno, che puntualmente viene pressato dall’esterno avversario. A questo punto si innesca il meccanismo infernale che, nella speranza degli allenatori, dovrebbe liberare la linea di passaggio verso le punte: con l’uomo che gli arriva alle spalle, l’esterno riceve la palla come fosse una patata bollente e senza guardare, con fede cieca nella religione del 3–5–2, calcia di prima verso il centro, in diagonale, sperando di raggiungere le punte. La mezzala del lato, infatti, ha eseguito il taglio interno-esterno per portare via, in teoria, il centrocampista che schermava il passaggio sulle punte. In realtà, tutta la combinazione non conduce a nulla: il centrocampista non segue la mezzala, di cui si occuperà eventualmente il terzino. Basta avere due linee compatte — non importa se 5+3 o 4+4 — per intercettare il passaggio di prima dall’esterno verso le punte.

Ieri sul mio profilo Twitter avevo pubblicato due fotogrammi di una giocata di questo tipo, che lascio nuovamente qua sotto:

Casoli, esterno destro, riceve e si ritrova pressato dal giocatore del Potenza col numero uno
Allora verticalizza subito verso l’attaccante, Di Piazza, mentre la mezzala (il giocatore di cui ho dimenticato di mettere il nome, sulla destra con la testa girata all’indietro) taglia verso l’esterno nella speranza di portare via un centrocampista. Il passaggio viene intercettato dal mediano (giocatore col numero 3)

Provate a guardare una partita di Serie C e contate quante volte viene eseguita questa giocata. C’è da uscire pazzi per la pigrizia con cui, ogni benedetta domenica, viene riproposta. Non che le alternative siano migliori. Se proprio c’un secondo in più, l’esterno invece di giocare sulle punte si appoggia in orizzontale al mediano che viene incontro. Spetta a lui, pressato, cercare il lancio alla cieca, stavolta oltre la difesa per lo scatto in profondità degli attaccanti, in una riedizione mediocre del lancio Valdifiori dell’Empoli di Sarri.

Perché il 3–5–2 è così diffuso?

Il 3–5–2 così eseguito è un modulo — a questo punto un sistema — spersonalizzante, che trasforma i singoli interpreti in automi. In Serie C i giocatori passano la palla e si muovono in maniera meccanica, quasi senza pensare: come ci si può non accorgere che è inutile passare la palla verso il centro di prima se in mezzo ci sono cinque avversari che schermano il destinatario? Sembra che certe giocate vengano provate in allenamento con delle sagome, in undici contro zero. Ogni calciatore, a seconda del suo ruolo, sa dove deve muoversi e sa che gli spettano uno, massimo due tocchi, perché bisogna eseguire quella specifica giocata, senza variazioni sul tema.

Un modo strano, forse anacronistico, di impostare una squadra. Non solo perché i vantaggi collettivi sono pochi, ma anche perché si castra del tutto il talento individuale, laddove ce ne sia. Il regista del Catanzaro, ad esempio, è Francesco Corapi, che forse i tifosi del Parma ricorderanno. Corapi è un centrocampista alto un metro e sessantacinque (meno di Verratti o Banega), ma con un destro davvero sensibile, che per tecnica avrebbe meritato di giocare almeno in alta Serie B. Ha un ottimo controllo sullo stretto e sa eludere il pressing, è abile in dribbling e può organizzare la squadra col palleggio. Nel 3–5–2 diventa un semplice lanciatore: come spiegato sopra, riceve in orizzontale dall’esterno. Quando gli arriva la palla ha già l’uomo attaccato, non può neanche provare il dribbling, per cui può solo verticalizzare sullo scatto in profondità delle punte. Probabilmente il modo sbagliato di usare un giocatore così tecnico e abituato a pensare col pallone tra i piedi, non a giocare secondo soluzioni meccaniche.

Il problema degli allenatori che usano il 3–5–2, il motivo per cui questo modulo e le sue giocate sono così diffuse in Serie C, sta proprio nella presunta assenza di talento individuale. Per spiegare la predilezione per il 3–5–2 potremmo rifarci alle parole di Marcelino García Toral. L’ex allenatore di Valencia e Villarreal, sacchiano di ferro, aveva spiegato come mai preferisse il 4–4–2 agli altri moduli. «È un modulo con cui non c’è bisogno di caratteristiche specifiche nei singoli giocatori. Altri sistemi in determinate posizioni hanno bisogno di giocatori con qualità molto particolari e nelle squadre che ho allenato non c’era la disponibilità economica per comprare quei calciatori».

Per gli allenatori di Serie C vale un discorso analogo. In rosa non ci sono giocatori con qualità tecniche particolari? Allora proviamo combinazioni che non richiedano troppo talento individuale. È un modulo che fornisce soluzioni in teoria sicure e accessibili a tutti, anche al singolo meno dotato, proprio perché gli si chiedono movimenti senza palla (che chiunque può fare,) e col pallone giocate di prima o passaggi immediati dopo il controllo: niente dribbling, niente tocchi extra per allentare la pressione, niente controlli orientati. I 3–5–2 della Serie C cercano di eliminare qualsiasi giocata che non sia a uno massimo due tocchi, per questo sono così popolari.

In questo senso, per quanto alcune giocate ne siano la brutta copia, i 3–5–2 della terza serie non c’entrano nulla con quello di Antonio Conte, dove ai difensori è richiesta intraprendenza (al centrale, de Vrij, persino di alzarsi sulla linea dei centrocampisti) e registi come Pirlo e Brozovic possono ordinare la squadra con le loro letture e la loro tecnica. Ma non ci sono affinità neanche col 4–4–2 di Marcelino, che non tarpava le ali del singolo ma anzi, si poggiava volentieri sulla tecnica di Parejo e Denis Suarez o sulle conduzioni di Gonçalo Guedes.

Le ultime tre vincitrici del girone C di Serie C sono state Lecce, Juve Stabia e Reggina. Nessuna di queste usava il 3–5–2. In parte solo la Reggina, anche se era spesso un 3–4–1–2 con Bellomo trequartista. E in ogni caso, più che sulle giocate a memoria, la squadra si reggeva sulle giocate individuali di calciatori fuori categoria come Reginaldo, Rivas, Denis o, appunto, Bellomo. Forse la classe media del girone C dovrebbe cercare soluzioni alternative.

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